Ci sono momenti in cui ci sembra di lottare contro il mondo, ostacolati da eventi esterni e circostanze fuori dal nostro controllo. Eppure, più spesso di quanto immaginiamo, ciò che realmente ci trattiene nasce dentro di noi. Come nella fotografia che accompagna questo articolo – una donna con il volto coperto dalle mani – ci capita di frapporre una distanza invisibile tra ciò che siamo e ciò che vorremmo diventare. Ho scattato personalmente questa immagine, come tutte quelle che accompagnano i miei articoli: sono parte integrante del messaggio, uno specchio visivo delle dinamiche interiori che esploro. In quel gesto – che può essere sia difesa che prigionia – ho voluto raccontare ciò che spesso accade dentro di noi: una protezione inizialmente necessaria che, nel tempo, rischia di trasformarsi in barriera.
L’autosabotaggio è una dinamica silenziosa e profonda. Non si presenta in modo eclatante: si insinua nei pensieri più razionali, travestito da prudenza, senso di realtà, o buon senso. Ci dice che non è il momento, che forse è meglio aspettare, che non siamo ancora pronti. Così restiamo fermi, mentre dentro di noi si agita il desiderio di cambiare. È un paradosso che molti conoscono bene: volere qualcosa e, al tempo stesso, ostacolarne l’avverarsi.
Alla radice dell’autosabotaggio si trovano emozioni complesse e stratificate: paura del fallimento, timore del giudizio, senso di inadeguatezza. A volte, paradossalmente, temiamo anche il cambiamento o il successo, perché implicano responsabilità, visibilità, trasformazione. La nostra mente – come ci ricorda Daniel Kahneman – non cerca la felicità, ma la coerenza: preferisce l’equilibrio del noto all’incertezza dell’ignoto, anche quando il noto è fonte di sofferenza.
Le forme dell’autosabotaggio sono molteplici e spesso sottili. C’è chi si rifugia nel perfezionismo, chi rimanda, chi si paralizza all’idea di sbagliare. La voce interna critica è spesso al centro di questo schema: quella che ci giudica prima ancora di iniziare, che ci convince di non essere all’altezza. In tutti questi casi, un’emozione non riconosciuta guida il comportamento. E finché resta nell’ombra, continuerà ad agire per noi.
Ma ogni processo di cambiamento inizia dalla consapevolezza. Non dal fare, ma dall’ascoltare. Chiederci: “Cosa sto davvero evitando?”, “Quale parte di me si sente minacciata?” può aprire spazi nuovi. Comprendere è già trasformare. Ed è proprio in questo spazio che possiamo iniziare a sviluppare una qualità psicologica fondamentale: l’autocompassione.
Non si tratta di giustificarsi, ma di riconoscere la fatica di crescere senza aggiungere giudizio al dolore. Dirsi: “Sto imparando. È umano sentirsi così”, ci aiuta a uscire dal ciclo del perfezionismo e del rimprovero. La cura psicologica non passa attraverso la forza, ma attraverso la gentilezza verso di sé.
Sul piano pratico, piccoli strumenti possono fare la differenza. Tenere un diario emotivo per osservare pensieri e schemi ricorrenti. Praticare la mindfulness per imparare a stare con ciò che c’è senza identificarci completamente con esso. Scomporre gli obiettivi in passi realizzabili, per evitare che l’ansia blocchi l’azione. E, soprattutto, cercare il confronto con una persona fidata o con un professionista, perché a volte è solo nello sguardo dell’altro che possiamo riconoscere ciò che da soli non vediamo.
Anche la letteratura ci ha mostrato questa complessità. Zeno Cosini, in La coscienza di Zeno, desidera cambiare ma finisce per autoingannarsi. Non è debolezza: è umanità. Siamo tutti, in fondo, attraversati da forze contrapposte che ci spingono avanti e ci trattengono allo stesso tempo.
Cambiare non è un atto di forza, ma un gesto di cura. E ogni cambiamento, prima di accadere, ha bisogno di essere immaginato. Spesso ci chiediamo: “E se fallisco?”. Ma la vera svolta potrebbe arrivare da una domanda diversa: “E se funzionasse?”
E allora, tornando alla fotografia che accompagna queste parole – quel volto nascosto, quelle mani sospese – mi chiedo: cosa raccontano davvero? Forse erano un tempo uno scudo, oggi rischiano di essere una barriera. Eppure, il cambiamento non ha bisogno di gesti eclatanti: a volte basta un respiro più profondo, uno sguardo che si apre, una mano che si abbassa. Non per esporsi senza difese, ma per scegliere di esserci, con fiducia.
Il vero coraggio non è nel forzare, ma nel permettere. Nel restare. Nel prendersi per mano e dirsi: “Posso affrontarlo. Posso restare con me. Anche adesso.”
Perché ogni mano che oggi copre il volto può, un giorno, diventare la stessa che lo accarezza. Un gesto che da evitamento si trasforma in contatto, da difesa si fa accoglienza. È questo, in fondo, il nucleo profondo del cambiamento: imparare a stare con noi stessi con rispetto, presenza e pazienza. E comprendere che ogni passo, anche il più piccolo, se fatto con consapevolezza, è già trasformazione.
L’autosabotaggio è una dinamica silenziosa e profonda. Non si presenta in modo eclatante: si insinua nei pensieri più razionali, travestito da prudenza, senso di realtà, o buon senso. Ci dice che non è il momento, che forse è meglio aspettare, che non siamo ancora pronti. Così restiamo fermi, mentre dentro di noi si agita il desiderio di cambiare. È un paradosso che molti conoscono bene: volere qualcosa e, al tempo stesso, ostacolarne l’avverarsi.
Alla radice dell’autosabotaggio si trovano emozioni complesse e stratificate: paura del fallimento, timore del giudizio, senso di inadeguatezza. A volte, paradossalmente, temiamo anche il cambiamento o il successo, perché implicano responsabilità, visibilità, trasformazione. La nostra mente – come ci ricorda Daniel Kahneman – non cerca la felicità, ma la coerenza: preferisce l’equilibrio del noto all’incertezza dell’ignoto, anche quando il noto è fonte di sofferenza.
Le forme dell’autosabotaggio sono molteplici e spesso sottili. C’è chi si rifugia nel perfezionismo, chi rimanda, chi si paralizza all’idea di sbagliare. La voce interna critica è spesso al centro di questo schema: quella che ci giudica prima ancora di iniziare, che ci convince di non essere all’altezza. In tutti questi casi, un’emozione non riconosciuta guida il comportamento. E finché resta nell’ombra, continuerà ad agire per noi.
Ma ogni processo di cambiamento inizia dalla consapevolezza. Non dal fare, ma dall’ascoltare. Chiederci: “Cosa sto davvero evitando?”, “Quale parte di me si sente minacciata?” può aprire spazi nuovi. Comprendere è già trasformare. Ed è proprio in questo spazio che possiamo iniziare a sviluppare una qualità psicologica fondamentale: l’autocompassione.
Non si tratta di giustificarsi, ma di riconoscere la fatica di crescere senza aggiungere giudizio al dolore. Dirsi: “Sto imparando. È umano sentirsi così”, ci aiuta a uscire dal ciclo del perfezionismo e del rimprovero. La cura psicologica non passa attraverso la forza, ma attraverso la gentilezza verso di sé.
Sul piano pratico, piccoli strumenti possono fare la differenza. Tenere un diario emotivo per osservare pensieri e schemi ricorrenti. Praticare la mindfulness per imparare a stare con ciò che c’è senza identificarci completamente con esso. Scomporre gli obiettivi in passi realizzabili, per evitare che l’ansia blocchi l’azione. E, soprattutto, cercare il confronto con una persona fidata o con un professionista, perché a volte è solo nello sguardo dell’altro che possiamo riconoscere ciò che da soli non vediamo.
Anche la letteratura ci ha mostrato questa complessità. Zeno Cosini, in La coscienza di Zeno, desidera cambiare ma finisce per autoingannarsi. Non è debolezza: è umanità. Siamo tutti, in fondo, attraversati da forze contrapposte che ci spingono avanti e ci trattengono allo stesso tempo.
Cambiare non è un atto di forza, ma un gesto di cura. E ogni cambiamento, prima di accadere, ha bisogno di essere immaginato. Spesso ci chiediamo: “E se fallisco?”. Ma la vera svolta potrebbe arrivare da una domanda diversa: “E se funzionasse?”
E allora, tornando alla fotografia che accompagna queste parole – quel volto nascosto, quelle mani sospese – mi chiedo: cosa raccontano davvero? Forse erano un tempo uno scudo, oggi rischiano di essere una barriera. Eppure, il cambiamento non ha bisogno di gesti eclatanti: a volte basta un respiro più profondo, uno sguardo che si apre, una mano che si abbassa. Non per esporsi senza difese, ma per scegliere di esserci, con fiducia.
Il vero coraggio non è nel forzare, ma nel permettere. Nel restare. Nel prendersi per mano e dirsi: “Posso affrontarlo. Posso restare con me. Anche adesso.”
Perché ogni mano che oggi copre il volto può, un giorno, diventare la stessa che lo accarezza. Un gesto che da evitamento si trasforma in contatto, da difesa si fa accoglienza. È questo, in fondo, il nucleo profondo del cambiamento: imparare a stare con noi stessi con rispetto, presenza e pazienza. E comprendere che ogni passo, anche il più piccolo, se fatto con consapevolezza, è già trasformazione.
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