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La rabbia come bussola interiore: comprendere un’emozione necessaria

 


Quante volte ti sei sentito in colpa per esserti arrabbiato? E quante, invece, hai rimpianto di non aver difeso i tuoi spazi? Nella nostra cultura la rabbia è guardata con sospetto: troppo spesso viene confusa con violenza o odio, e per questo relegata tra le emozioni proibite. Si impara presto a reprimerla, a nasconderla, a giudicarla. Eppure, la rabbia non è un nemico da combattere, ma una voce interiore che chiede di essere ascoltata.

 La rabbia non è un difetto: è un messaggio che ci avverte quando stiamo vivendo una situazione che non ci fa bene. Come la febbre, che non è il male in sé ma l’allarme del corpo, così la rabbia ci segnala con chiarezza che un confine è stato oltrepassato, che una situazione è diventata insostenibile, che la nostra dignità chiede protezione. È la forza che ci consente di affermare: «Questo non mi fa bene. Oltre questo limite non posso andare.» 
Persino il cinema, con Inside Out, le assegna un posto preciso nella cabina di regia della psiche, accanto a gioia, tristezza e paura. Non è un’emozione negativa, ma necessaria. Lo ricordava anche Carl Gustav Jung: «Le emozioni non sono né positive né negative. Sono semplicemente necessarie.»

Per molti di noi, però, arrabbiarsi non è mai stato “permesso”. Il mantra silenzioso dell’infanzia è stato spesso: «Meglio compiacere che disturbare.» Ma la rabbia zittita non scompare: fermenta. Col tempo si trasforma in rancore, in sensi di colpa paralizzanti, in sintomi fisici o in esplosioni sproporzionate che paiono arrivare dal nulla. Eppure la rabbia non è soltanto urlo o conflitto. A volte è chiarezza: riconoscere che una situazione ci logora. A volte è gesto: rompere un’abitudine che consuma. A volte è silenzio denso, più eloquente di mille parole. Non chiede di distruggere, ma di essere riconosciuta, perché dietro ogni rabbia c’è sempre un bisogno rimasto inascoltato.

Quando la rabbia fa capolino in psicoterapia, è sempre un momento rivelatore. Non si tratta di incoraggiare sfoghi ciechi, ma di creare uno spazio in cui possa trasformarsi in parola e comprensione. È l’occasione per chi ha sempre detto “sì” di imparare finalmente a dire “no”, per chi ha subìto un torto di deporre il peso che lo imprigiona, per chi l’ha confusa con la colpa di scoprirla invece come bussola interiore. La rabbia adulta, spesso sproporzionata, non appartiene soltanto al presente. Porta con sé l’eco di esperienze infantili, quando esprimerla significava rischiare l’amore o l’accettazione. In terapia, leggere questo intreccio è fondamentale: ciò che appare come un “scatto” diventa la voce di un antico vissuto che l’adulto, finalmente, può tradurre in un confine sano.

Accogliere la rabbia, tuttavia, non significa legittimare ogni reazione. Una volta riconosciuta, essa chiede anche una risposta responsabile. L’ascolto interiore è il primo passo; il secondo è l’espressione, che deve trovare una forma assertiva, capace di affermare i propri limiti senza violare quelli altrui. La rabbia “tradotta” in linguaggio diventa così un atto di chiarezza: non un colpo che ferisce, ma una parola che orienta. È in questo passaggio che si compie davvero la sua trasformazione in bussola, perché indica non solo ciò che vogliamo proteggere, ma anche come intendiamo restare in relazione.

Difendere un confine non significa costruire muri, ma proteggere il proprio spazio vitale: sapersi dire “sì” o “no” senza sensi di colpa, e accettare che deludere qualcuno a volte è necessario per rispettare sé stessi. La rabbia è come un segnale stradale: ci avverte quando stiamo per oltrepassare noi stessi. Viviamo in una società che teme il conflitto e impone un’armonia apparente a tutti i costi. Ma un’armonia che esclude la rabbia è fragile, costruita sul silenzio. La vera armonia nasce dall’incontro di tutte le emozioni, anche di quelle che disturbano.

Come ricordava James Hillman, l’emozione non va repressa né “riparata” come un guasto, ma interrogata e ascoltata: «Che cosa vuole l’emozione?» Quando la rabbia viene accolta, smette di essere rumore e si fa linguaggio. Non è un errore da correggere, ma un sapere antico che ci orienta con maggiore consapevolezza verso chi siamo, cosa vogliamo e fin dove siamo disposti ad andare.
 
Accogliere la rabbia non significa esaltarla né soffocarla, ma restituirle il posto che le spetta: quello di una bussola interiore che ci guida, con fermezza e dignità, lungo il viaggio della vita.

Commenti

Anonimo ha detto…
Brava Giuseppina, da adesso la chiamerò "Rabiussola"
Anonimo ha detto…
Come sempre colpisci i unti giusti coi tuoi post, grazie per questa prospettiva saggia ed esperta 🙏
In un mondo, quale è il nostro, calato in una matrice, ovvero un modello preconfezionato dove ognuno di noi ricade in una categoria spesso rigida, è facile ritrovarsi nella prigione del ruolo rigido. La necessità di ottemperare ai doveri richiesti dal ruolo, dalla categoria di appartenenza, non lascia spazio alla libertà esistenziale, ontologica, con la quale gli individui sono nati. Ecco allora che può capitare l’insorgere del grido di allarme dell’anima che si palesa sotto forma di rabbia. Bisognerebbe educare a quella libertà che non si esprime nel “faccio quello che mi pare” ma nella piena espressione della peculiarità con cui si nasce. Riconoscere questa peculiarità, questa missione animica, significa porre gli individui in quello spazio sacro che permette loro di dare il proprio contributo alla comunità senza snaturarsi e dunque senza cadere nella trappola del modello rigido imposto da schemi precostituiti.

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